Nel mondo del lavoro si parla spesso di inclusione e di pari opportunità, ma è ancora largamente presente un fenomeno che la maggior parte delle persone sottovalutano, ovvero l’ageismo, la discriminazione basata sull’età. Si tratta di un fenomeno trasversale, che colpisce sia i giovani, spesso percepiti come troppo inesperti o incapaci, sia i lavoratori più maturi, visti come poco aggiornati o non creativi.
Sapevi che, secondo un’indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), almeno 1 persona su 2 nel mondo ha espresso pregiudizi legati all’età?
Anche in Italia il fenomeno è largamente diffuso, ma ancora poco considerato: basti pensare alle difficoltà di reinserimento lavorativo per chi ha superato i 50 anni o agli stage proposti a laureati trentenni come prime esperienze.
In altre parole, l’ageismo riduce le opportunità occupazionali, ostacola la carriera e incide negativamente sul benessere psicologico delle persone coinvolte. L’obiettivo di questo articolo è proprio quello di fare chiarezza sull’argomento, spiegando come si manifesta nelle sue diverse forme e cosa possono fare le risorse umane per riconoscerlo e contrastarlo attivamente.
Il termine ageismo è stato coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Butler per indicare i pregiudizi e le discriminazioni basate sull’età; il concetto ha poi cominciando a diffondersi maggiormente solo negli anni Novanta.
Sebbene si applichi a tutte le fasce anagrafiche, nel contesto lavorativo colpisce principalmente due categorie ai poli opposti: da una parte i giovani che hanno appena conseguito il titolo di studio, considerati ancora troppo inesperti, dall’altra individui che hanno superato la mezza età che, essendo vicini alla pensione, vengono automaticamente scartati per numerosi posti di lavoro.
A livello di definizione l’ageismo si può manifestare su diversi livelli:
Inoltre, i comportamenti discriminatori potrebbero essere anche espliciti, ovvero evidenti attraverso commenti e azioni intenzionali, oppure impliciti, in quanto chi applica la discriminazione lo fa inconsapevolmente, attribuendoli ad altri fattori.
Uno studio del 2021 pubblicato su The Gerontologist ha rilevato che il 60% dei lavoratori over 50 ha percepito discriminazioni legate all’età nel corso della propria carriera. In Italia, dati ISTAT mostrano che oltre un milione di persone tra i 55 e i 64 anni è fuori dal mercato del lavoro, nonostante molti abbiano ancora competenze e motivazione da offrire.
L’ageismo sul lavoro può assumere forme molto diverse, spesso così sottili da passare inosservate. Alcuni comportamenti sono espliciti e immediatamente riconoscibili, altri invece si insinuano in dinamiche quotidiane con effetti profondi e duraturi.
Uno degli ambiti più colpiti è quello della selezione del personale: capita spesso che i curriculum di candidati over 50 vengano scartati a priori, anche se perfettamente qualificati. Altri segnali si manifestano nel linguaggio usato negli annunci di lavoro, dove termini come “team giovane e dinamico” o “flessibilità oraria” possono essere letti come un’esclusione implicita delle fasce d’età più alte.
Nel quotidiano, l’ageismo può presentarsi attraverso il mancato accesso alla formazione continua, come se imparare nuove competenze digitali fosse una prerogativa solo dei più giovani. Alcuni lavoratori maturi vengono tenuti ai margini di progetti innovativi o relegati a mansioni ripetitive, in base all’idea errata che siano meno reattivi o creativi.
Un’altra forma comune è il micromanagement nei confronti dei lavoratori più giovani, ritenuti troppo inesperti per gestire autonomamente le proprie responsabilità, oppure la mancanza di avanzamento di carriera per i senior, bloccati in ruoli statici con poche prospettive di crescita.
Infine, in alcuni ambienti si perpetua una cultura del “giovanilismo” che premia l’età più che il merito, creando fratture intergenerazionali e minando la coesione del team.
Il ruolo delle risorse umane è fondamentale per prevenire e contrastare l’ageismo sul luogo di lavoro. Non si tratta solo di rispettare norme e regolamenti, ma anche di costruire una cultura inclusiva dove l’età non sia mai un limite, bensì un valore aggiunto.
Ecco alcune azioni concrete che gli HR possono mettere in campo:
Contrastare l’ageismo richiede impegno e consapevolezza, ma può generare ambienti più equi, produttivi e ricchi di prospettive.
Gli effetti dell’ageismo sulle persone che lo subiscono sono tutt’altro che superficiali. A livello psicologico, sentirsi esclusi o sottovalutati può portare a un calo drastico dell’autostima, alla perdita di motivazione e, nei casi più gravi, a veri e propri stati di ansia o depressione. Chi è vittima di pregiudizi legati all’età può iniziare a mettere in discussione il proprio valore professionale, anche quando ha alle spalle anni di esperienza e risultati concreti.
Non solo, l’ageismo può incidere persino sulle performance. Un lavoratore che percepisce di essere escluso tende a impegnarsi meno, a isolarsi dai colleghi, o addirittura ad anticipare l’uscita dal mondo del lavoro. Si crea così un circolo vizioso: meno coinvolgimento, meno crescita, meno innovazione.
Per questo motivo, intervenire è una responsabilità sociale oltre che un vantaggio strategico per l’azienda. In questo modo è lo stesso contesto lavorativo che valorizza le esperienze e le capacità di ciascun dipendente, valutando le opportunità di carriera in base alle aspirazioni e competenze, all’interno di un ambiente inclusivo e stimolante per tutti.
Approfondimenti: